Certo lo so, non é una bella foto. Non é certo lo scatto perfetto, questo é evidente.
Posso giustificarmi dicendo che gli anno 80 erano appena finiti e il nuovo decennio aveva fatto capolino da soli 8 mesi. Mi trovavo infatti in India nell’agosto del 1990. Le attrezzature fotografiche, a quei tempi, erano costose e le pellicole o le diapositive avevano i loro limiti. Potevi permetterti un certo numero di scatti. Possiamo dire che se ti portavi 5 rullini avevi 180 scatti disponibili in un mese di viaggio. Quindi cercavo di scattare con oculatezza. Con condizioni di luce ottime e con le migliori condizioni per non cannare clamorosamente la messa a fuoco manuale.
Quindi questo scatto, decisamente fuori fuoco e sovraesposto, non ha senso e non ha ragione di esistere. Ma io lo adoro, mi emoziona. Ogni volta che lo guardo mi riporta là, in quella squallida guest house di Delhi. Rimasto silenziosamente per anni in qualche cassetto ha poi deciso di riapparire e risvegliare ricordi assopiti.
Ed allora andiamo nel lontano 1990.
New Delhi nei dintorni di Connaught Place
Mancavano poche ore al volo che ci avrebbe riportato a casa. Pernottavamo da un paio di giorni a New Delhi. il nostro rifugio era una piccola e umida stanzetta in centro città. Un ascensore da incubo saliva al terzo piano di un vecchio edificio circondato da edifici altrettanto vecchi e squallidi. Una piccolissima reception con un enorme Ganesha in bronzo sul bancone accoglieva i viaggiatori. La nostra stanza: un letto, due comodini, un vecchio armadio, muri scrostati e un’ unica piccola finestra. Quel pomeriggio gli zaini già chiusi appoggiati ai piedi del letto prerannunciavano l’imminente partenza.
Da lì ad un paio d’ore un bus ci avrebbe portato lentamente all’ aeroporto. Il caldo era insopportabile, l’odore dell’umidità aveva impregnato ogni cosa. I vestiti, i capelli e giù fino alle dita dei piedi. Tutto puzzava di umidità stagnante. Sudavo solo a muovere le sopracciglia e stavo per questo immobile, sdraiato sul letto. In questi casi quando il tempo dovrebbe correre fa il contrario, rallenta. lo fa apposta, lo fa per dispetto. Controvoglia lasciavo l’India ma era inevitabile e l’attesa mi uccideva. Tanto meglio partire al più presto e porre fine a quella snervante, immobile, umida attesa.
Dalla finestra aperta entravano i soliti rumori, tanto comuni nelle città indiane, il traffico, i colpi di clacson, le voci, i rumori di strada. Insomma entrava la solita India. Indifferente a tutto questo sonnecchiavo beatamente. Una voce dolce che distinguo chiaramente dal resto dei suoni, mi incuriosisce. Sembra essere molto vicina. Parla e ride. Ho la sensazione che sia un canto, una melodia. Oppure una fiaba raccontata lentamente. Mi alzo, il sudore mi cola dalla fronte, mi affaccio alla piccola finestra. Lei è lì.
Su un piccolo balconcino dell’edificio accanto, una mamma sta raccontando una storia al suo bambino. Sono felici, ridono. Resto a guardare, il tempo si ferma, i rumori scompaiono e ci sono solo loro. Per quanto tempo, da quello spiraglio, sono stato spettatore della felicità non lo ricordo. Non ricordo come e quando ho scattato la foto. Come dicevo mi è ricapitata fra le mani anni dopo ed ha risvegliato in me le emozioni di quel pomeriggio indiano. Quella dolce litania mi ha accompagnato per tutto il viaggio di ritorno. Quella dolcezza mi è rimasta addosso per giorni , settimane. L’india nuovamente, emozionava, affascinava e insegnava. Ha voluto concedermi un ultimo dono prima di dirci arrivederci. Un dono d’amore
Questo scatto sfocato e tecnicamente imperfetto mi emoziona ancora oggi, mi ricorda che la felicità è un diritto universale e quando meno te lo aspetti trova uno spiraglio per contagiare il mondo.
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