
I tonsori di Benares
Aspettano, immobili come statue, ma con lo sguardo vigile.
Aspettano come antichi guerrieri, armati non di spade, ma di rasoi affilati.
Stanno seduti in fila lungo i ghat, sotto il sole o all’ombra di un telo consunto.
Sono i tonsori di Benares. Scrutano la folla con occhi esperti: un gruppo di pellegrini stanchi, una famiglia che scende lentamente la scalinata verso il Gange, un uomo con gli occhi pieni di lutto o una donna vestita di bianco. Conoscono i segnali, li riconoscono al volo. Si avvicinano, circondano i potenziali clienti, trattano il prezzo con frasi veloci, quasi sussurrate. Poi, un cenno. E in un attimo, lo spettacolo inizia.
Sotto il cielo sacro di Varanasi, intere famiglie si siedono in fila, chine, pronte all’offerta. I rasoi scorrono veloci, precisi. I capelli cadono come piume sulla pietra bagnata, portati via dal vento o dall’acqua del fiume.
La tonsura non è solo un taglio: è un atto sacro, una rinuncia. Un gesto antico che segna il distacco dalla vanità e dalla vita mondana, una purificazione prima dell’incontro col divino. Anche nel culto cattolico, un tempo, la rasatura del capo era segno di consacrazione: la tonsura fu praticata per secoli, fino alla sua abolizione da parte di papa Paolo VI nel 1972. In India, invece, vive ancora. E nei giorni di buon auspicio, durante un anniversario, una promessa mantenuta, o un rito di passaggio — intere famiglie si presentano al tempio con il capo rasato e il cuore leggero, pronti a onorare Dio con ciò che hanno di più personale: sé stessi.
Si chiama Ramu, ma da tutti è conosciuto come Baba Ramu, il vecchio tonsore del ghat Sudder.
Nessuno sa quanti anni abbia davvero. Alcuni dicono settanta, altri giurano che lo ricordano lì, seduto sulla stessa pietra, già quando loro erano bambini. Ogni mattina, prima che il sole illumini le cupole dei templi, Ramu scende i gradini consumati del Gange. Si siede nello stesso angolo, tra due colonne sbeccate, appoggia il rasoio su un panno bianco, stende la ciotola d’acqua, la piccola pietra per affilare, il pettine di legno. E aspetta. Non chiama, non insiste. I clienti arrivano da soli. Lo scelgono perché nei suoi gesti c’ è qualcosa di antico, quasi sacro. Quando inizia a radere, lo fa in silenzio, con mani ferme e occhi abbassati. Ogni movimento è lento, misurato, come se stesse compiendo un rito più che un mestiere.
Una volta, un turista curioso gli chiese perché non usasse una macchinetta elettrica.
Ramu non rispose. Continuò a passare la lama sul cranio di un giovane uomo che aveva perso il padre il giorno prima. I capelli cadevano come cenere. Alla fine, Ramu raccolse una ciocca, la guardò un attimo, poi la gettò nel Gange. “Non taglio solo capelli,” disse poi, sottovoce. “Taglio il passato.”
Chi si siede davanti a lui spesso piange. Un padre che offre la tonsura al figlio appena guarito. Una donna che onora il marito morto. Un giovane che entra in una nuova fase della vita.
E Ramu è lì, testimone silenzioso, mani rugose che conoscono la fragilità della pelle e quella dell’anima.
Quando il sole cala e l’ombra avvolge i gradini, Ramu pulisce i suoi strumenti con cura.
Poi si alza, lentamente, e si allontana senza voltarsi.