
Un giorno al lunapark
I motociclisti folli
Kumbh Mela: dove il sacro incontra il surreale
Kumbh Mela. Questa parola, per chi conosce anche solo un poco l’India, evoca subito immagini potenti: santoni avvolti nella cenere, bagni collettivi nel Gange, sadhu con un tridente in mano che si aggirano nudi tra la folla, e una moltitudine intenta a pregare, cercando la purificazione dai peccati o il favore delle divinità.
Ebbene sì, tutto questo c’è. Ma sarebbe un errore fermarsi solo alla dimensione spirituale. Perché il Kumbh Mela è anche una festa, una fiera colossale, e come in ogni fiera che si rispetti, ci si può – anzi, ci si deve – anche divertire. E allora cosa c’è di meglio di un lunapark? Colorato, rumoroso, folle.
Una moltitudine umana, variopinta e festosa, popola lo spazio immenso dedicato al lunapark del Kumbh Mela a Prayagraj. È dall’alba che cammino lungo le sponde del Gange, immerso in visioni e preghiere. Ora, dopo una breve sosta per il pranzo, è la musica a chiamarmi. Il ritmo dei tamburi, le urla dei venditori, il vociare della folla. È festa.
Le attrazioni sono quelle classiche: giostre, ruote panoramiche, autoscontri. Non sono moderne, ma funzionano. Eccome se funzionano. Ma è una struttura laterale, un tendone impolverato da cui esce un rombo di motori, che cattura la mia attenzione. Uno spettacolo di motociclisti “folli”, così recita l’insegna. E mi torna alla mente un ricordo lontano: ero un bambino, negli anni Settanta, e avevo assistito a qualcosa di simile. Motociclisti in una sfera di metallo, con tute di pelle nera e caschi da film americano. Ricordo il rombo, il fumo, e quel brivido sottile del pericolo.
Quasi mezzo secolo dopo, eccomi in un altro continente a rivivere quell’emozione. Lo spettacolo è lo stesso, almeno nella sostanza. Il rombo c’è, il fumo anche. Ma il senso del pericolo, oggi, sembra dissolto. Non lo sento io, e di certo non lo sente chi il pericolo lo affronta davvero.
I motociclisti sfrecciano impavidi su una struttura di ferro e legno che ondeggia come una torre in pieno terremoto. Corrono in due, in tre, a volte senza mani, a volte di traverso. Le moto sembrano uscite da uno sfasciacarrozze, vecchie, ammaccate, eppure ancora capaci di volare. Niente caschi, niente protezioni. Solo ciabatte infradito e facce scolpite dal sole.
La star dello spettacolo è un ragazzetto in camicia bianca, pelle scura, un orecchino e una catena da rocker. Più chitarrista da band di provincia che stuntman. Si chiama Vivek. Prima di ogni spettacolo viene presentato al pubblico con orgoglio. Lui sgasa, fiero, e promette che le 20 rupie del biglietto sono ben spese. “Entrate signori, entrate! Lo spettacolo è da brividi!”, grida l’imbonitore, voce roca in un microfono gracchiante.
E così, ogni venti minuti, Vivek e i suoi compagni sfidano la sorte.
Il successo? O la tragedia? Non dipendono dall’abilità. Non dalle infradito che potrebbero scivolare, né dal motore che potrebbe grippare all’improvviso facendo crollare tutto. No. Il successo dipende da quanta devozione hai messo nella preghiera del mattino, lì, sulle sponde del Gange.
E se poi qualcosa va storto, se arriva il dramma, vuol dire che doveva andare così. Il destino è scritto. Caschi, tute, stivali non cambierebbero nulla. Qui non si sfida la gravità. Si danza con il karma.
E allora, forza Vivek, salta in sella, dai gas al motore. Facci sognare. Oggi è una giornata propizia. Oggi gli dèi sono con te.